Cosa significa l’ultimo viaggio in Africa di Antony Blinken, segretario di Stato americano. Tra competizione con la Cina e ordine mondiale, la strategia di Washington nell’analisi di Valori

La strategia degli Stati Uniti d’America verso l’Africa annunciata dal segretario di Stato statunitense, Antony Blinken durante la sua recente visita in Sudafrica non è una novità e l’approccio paternalistico verso il continente da parte degli Stati Uniti d’America, ripercorre i vecchi copioni. In pratica si tratta dell’utilizzo dell’Africa come una pedina nella competizione tra Washington e Pechino, Mosca e altre grandi potenze, piuttosto che promuovere sinceramente gli interessi della gente di quel continente.

È comunque chiaro che gli Stati Uniti d’America non riescono a cercare di rafforzare le loro relazioni con l’Africa incitando sentimenti anti-cinesi, come avviene invece entro i ceti politici europei amorfi e al traino della Casa Bianca. La Repubblica Popolare della Cina e l’Africa da tempo hanno stretto un solido partenariato, portando benefici tangibili al continente africano, che non possono essere cancellati da nessuna retorica trita e ritrita del pericolo giallo.

Il segretario di Stato, Anthony Blinken, nella visita ha annunciato la visione della Casa Bianca per l’Africa sub-sahariana quando ha pronunciato il suo discorso a Pretoria. La strategia, ha affermato, mira a rafforzare le relazioni Stati Uniti d’America-Africa costruendo una società aperta, promuovendo la democrazia, favorendo la cooperazione economica e affrontando il cambiamento climatico.

Blinken ha sottolineato l’importanza dell’Africa in termini di popolazione giovane, minerali critici (da sfruttare) e aree marittime strategiche (ove piazzare le flotte a stelle e strisce), nonché i voti dei cinquantaquattro Paesi e passa africani (la Repubblica Araba Democratica del Sahara non è all’Onu), in organizzazioni internazionali quali le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale del commercio.

Questi attributi, ha affermato, renderebbero l’Africa una priorità della politica estera degli Stati Uniti. Deludente, tuttavia, la strategia vaga che ha evitato di assumersi impegni e responsabilità specifiche. Questa tradizionale, ma blanda, strategia è l’ultima di un’ondata paternalistica di predicazioni buonistiche provenienti dall’Occidente e dagli Stati Uniti d’America in particolare, su come i Paesi africani dovrebbero gestire i propri affari secondo le predette diplomazie, a mo’ di burattini da teatro europeo dei pupi.

Blinken non sembrava avere una buona comprensione dell’atmosfera che si respira in terra africana. Le dirigenze africane – sicuramente spaventate dalle maniere in cui i Paesi occidentali impongono la “democrazia” in Vicino e Medio Oriente Libia e altrove, con alleanze militari e bombe “umanitarie” – non hanno più alcun interesse ad ascoltare letali pistolotti su forme idealizzate ad uso e consumo di “democrazia” e “diritti umani” che nemmeno gli stessi Stati Uniti d’America sono stati in grado di realizzare nel proprio Paese: bastino i modi in cui sono trattate le persone di colore, i para-bantustan per gli amerindi nativi, le sacche di povertà in cui sono infilati cittadini statunitensi anche bianchi, il servizio sanitario che bisogna assolutamente pagare e chi non può a suo danno, la corruzione nella politica, il voto scaduto a formalità, ecc. su cui ci siamo già intrattenuti.

Le deduzioni di Blinken sul deficit della democrazia africana si basano su dubbi indicatori proposti da organizzazioni non-governative occidentali come Freedom House. Fare affidamento sulle reti cognitive occidentali per comprendere e trarre conclusioni sull’Africa è a mezza strada fra il disprezzo per i governi africano e il ridicolo per gli osservatori politici africani e non solo. Si può vedere che gli Stati Uniti d’America considerano ancora il proprio sistema di governance come il gold standard a cui dovrebbero aspirare tutti i paesi del mondo: il ben noto destino manifesto di imporsi nel e sul pianeta Terra.

Da aggiungere che uno degli aspetti più deludenti ma anche inaspettati della strategia statunitense per l’Africa è quello che vede il continente come la scacchiera in cui si pongono i pezzi per infinite partite triangolari nella competizione con grandi potenze quali Repubblica Popolare della Cina e Federazione Russa. Si ha la netta impressione che il valore dell’Africa per gli Stati Uniti d’America sia in gran parte derivato piuttosto che intrinseco. Blinken ha menzionato il rapporto della Repubblica Popolare della Cina con l’Africa in tre diversi casi e tutti negativamente. Ha affermato, che “la Repubblica Popolare Cinese vede la regione Africa come una sfida all’ordine internazionale basato sulle regole, promuovendo i suoi ristretti interessi commerciali e geopolitici, minando la trasparenza e l’apertura e sabotando le relazioni degli Stati Uniti con i popoli e i governi africani”. E quindi, la Casa Bianca è impegnata in quella che chiama “la lotta alle attività dannose di Repubblica Popolare Cinese, Russia e altri attori stranieri”.

Più avanti ha detto che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America lavorerà con i partner africani per esporre loro i rischi delle attività avverse della Repubblica Popolare della Cina e della Federazione Russa in Africa. Blinken ha anche pubblicizzato la Global Partnership for Infrastructure Investment, un’iniziativa globale sostenuta dal Gruppo dei Sette (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America) ampiamente considerata come un tentativo di rivaleggiare con la Belt and Road Initiative (Via della Seta) cinese. Gli Stati Uniti d’America sono stati uno dei critici più accaniti della Belt and Road Initiative, sostenendo che la Repubblica Popolare della Cina la sta usando per minare la sovranità dei Paesi in via di sviluppo mentre promuove gli interessi nazionali di Pechino. Del resto già in precedenti interventi abbiamo sottolineato che la guerra in Siria dal 2011 è stato ed è un tentativo per minare la Via della Seta.

Le affermazioni statunitensi non sono state comprovate e non reggono al semplice controllo dei fatti: sono solo una campagna politica diffamatoria contro la Repubblica Popolare della Cina. Pechino e l’Africa hanno stabilito una solida collaborazione radicata nell’amicizia tradizionale e nella parità di trattamento tra le due parti, che risale alla Conferenza di Bandung (1955), al periodo del riconoscimento egiziano della Repubblica Popolare della Cina (1956) e alla costruzione di imponenti strutture ferroviarie in Africa, edificate da Pechino sin dai tempi della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria senza chiedere nulla in cambio.

La Repubblica Popolare della Cina è una parte importante della ripresa economica dell’Africa nel sec. XXI, compresi il commercio, gli investimenti, la finanza e lo sviluppo sociale. Su questioni spinose come la pace e la sicurezza in Africa e la lotta alla nuova epidemia di polmonite coronarica, la Repubblica Popolare della Cina ha sempre fatto ciò che aveva promesso nell’impegno collaborativo

La Repubblica Popolare della Cina è uno dei maggiori contributori alle missioni africane di mantenimento della pace, con oltre 1.800 soldati. Un contingente superiore a quelli degli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite messi insieme. Nonostante l’impegno dichiarato di Blinken per la pace e la sicurezza in Africa, gli Stati Uniti d’Amrica hanno inviato solo 29 membri del personale alle missioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite.

Mentre la nuova epidemia di polmonite coronarica colpiva il mondo, la Repubblica Popolare della Cina è stata in prima linea nell’aiutare l’Africa a combattere l’epidemia attraverso forniture e donazioni. A differenza del nazionalismo vaccinale negli Stati Uniti d’America, il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che il vaccino contro il Covid-19 è un bene pubblico globale e ne ha garantito l’accesso in Africa e in altri Paesi in via di sviluppo.

Le proposte della Repubblica Popolare della Cina come la Global Development Initiative and Global Security Initiative – le recenti proposte della Cina per la pace nel mondo e la sicurezza globale – sono particolarmente in linea con gli interessi dell’Africa anche per lo sviluppo sostenibile, piuttosto che imporre un modo di pensare alieno ad altri Paesi.

Nella sua cooperazione con l’Africa, la Repubblica Popolare della Cina ha costantemente aderito ai principi del rispetto della sovranità dei Paesi africani e della non interferenza negli affari interni. Questi principi dimostrano la fiducia di Pechino nella capacità dei Paesi africani di scegliere da soli la via di sviluppo. Il motivo per cui i dirigenti africani oggi propendono per l’Impero di Mezzo è perché le relazioni Cina-Africa hanno portato benefici tangibili al Continente africano, che non possono essere cancellati dalla retorica neo-maccartista maleolente di anticomunismo da guerra fredda.

La retorica anti-cinese ha consumato a lungo la politica estera degli Stati Uniti d’America, culminando con l’approvazione da parte del Congresso di Washington del China Competition Act, che è essenzialmente uno sforzo per contrastare la crescente importanza di Pechino negli affari globali, anche in Africa. Le mosse tradiscono la sensazione che gli Stati Uniti d’America siano più preoccupati di minare la crescente influenza della Repubblica Popolare dellaCina in Africa che di far avanzare gli interessi africani. Agli occhi dell’establishment statunitense, l’Africa non è altro che un’arena geopolitica.

Inducendo l’Africa a scegliere tra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare della Cina, Blinken chiaramente non ha imparato nulla dal passato e né dalle lezioni di Kissinger.

I leader africani non sono più interessati alla politica delle zone d’influenza degli anni Sessanta-Novanta, quando il rapporto tra questi poteri imponeva loro una scelta di scenario per poi essere lasciati ai margini. L’Africa ha imparato a gestire vari partenariati basati sui propri meriti e sugli interessi del Continente, anche con l’aiuto di forze esterne. Gli Stati Uniti d’America non possono costruire solidi partenariati con l’Africa alimentando il sentimento anti-cinese. Sarebbe meglio per tutti se Washington potesse integrare ciò che la Cina sta già facendo da tempo in Africa.

Giancarlo Elia Valori