Politicamente, economicamente e militarmente, il continente europeo si è nuovamente diviso: la Russia a est, la NATO e l’UE a ovest, e i paesi intermedi – Ucraina, Bielorussia, Moldavia e gli Stati del Caucaso – sono diventati una zona di potenziale conflitto. Una guerra tra le grandi potenze in Europa – che sembrava essere rimasta sulle pagine dei libri di storia – ancora una volta è diventata, seppur improbabile (per questioni atomiche), ma possibile.
L’equivalente dell’azione militare sono state le sanzioni economiche e la guerra dell’informazione che si è sviluppata a pieno regime. Sebbene Russia e Stati Uniti d’America fossero già sull’orlo di un confronto sulla Georgia nel 2008, l’episodio è stato troppo fugace, abbastanza periferico e lasciato senza conseguenze a causa dello scoppio della ben nota crisi finanziaria globale e del cambio di amministrazione a Washington con l’insediamento del presidente Barack Hussein Obama (2009-17). Però, a differenza della Georgia, l’Ucraina è riuscita a cambiare il sistema delle relazioni internazionali a distanza di trent’anni e passa dalla fine della “prima” guerra fredda.
La brusca svolta nelle relazioni tra la Russia e l’Occidente è arrivata dopo venticinque anni di lenti sforzi da entrambe le parti per costruire una relazione inclusiva. Negli ultimi due anni del mandato di Michail Sergeevič Gorbačëv (segretario PCUS: 1985-91) alla guida dell’URSS, Mosca sperava di creare una “casa comune europea” e una dirigenza mondiale congiunta con gli Stati Uniti d’America: divenne presto chiaro che entrambi questi postulati – si fa per dire – fossero illusori. Il primo presidente della Federazione Russa, Boris Nikoláevič El’cin (1991-99), tentò di integrare completamente il Paese con l’Occidente attraverso l’adesione alla NATO e un’alleanza diretta con gli Stati Uniti d’America. Nemmeno questo ha funzionato, specie quando qualcuno in Russia s’è accorto che il proprio Paese rischiava di essere letteralmente prima svenduto e poi colonizzato dal soft power allogeno – usando un eufemismo.
Il presidente Vladimir Vladimirovič Putin (2000-08, e dal 2012), dopo aver sondato informalmente l’Occidente sull’ingresso della Russia nella NATO, in un discorso al Bundestag del 2001 (il presidente parlava in tedesco), affermò che la Russia aveva stretto un rapporto di alleanza con gli Stati Uniti d’America, e annunciò pubblicamente la scelta europea del Paese. Il terzo presidente, Dmitrij Anatol’evič Medvedev (2008-12), chiese un trattato di sicurezza europeo, e suggerì che Russia e NATO creassero un perimetro di difesa comune e ha cercò attivamente di concludere “alleanze di modernizzazione” con i Paesi economicamente avanzati dell’Occidente.
Nonostante gli sforzi dell’ultimo capo del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e dei primi tre presidenti russi, le dirigenze occidentali non hanno in realtà mostrato mai alcun reale interesse per l’integrazione russa. Avevano delle ragioni per evitarlo.
La Russia è troppo grande per un’impresa del genere, soprattutto in termini di quantità di assistenza economica necessaria per avvicinarla al livello dell’Europa occidentale e, nonostante la perdita dello status di superpotenza, è troppo indipendente e non ha sensi di semicolonia, presenti nel DNA di UE a cui mancano – oltre agli attribuiti – anche un esercito e la volontà di costituirlo. Inoltre la Russia è in possesso di un enorme arsenale nucleare e di un’élite che pensa in termini di grande potere, e lotta per l’uguaglianza con gli Stati Uniti d’America. Non ha esponenti che mirano a ricche poltrone a Bruxelles, Strasburgo, in casa o altrove – oppure a ricche mazzette, al pari di quel che si sta scoprendo in questi giorni.
Per Washington, la Russia sarebbe un alleato troppo testardo e scomodo. Infine, l’Occidente non ha una minaccia esterna che richieda alla Russia di aderire al sistema di alleanze guidato dagli Stati Uniti d’America, in quanto la minaccia – a parere delle teste d’uovo in questione – giunge proprio dalla Russia, e ancor prima della crisi ucraina.
Invece di integrare la Russia nel suo sistema di strutture internazionali, l’Occidente ha cercato di indirizzarla per creare quelle istituzioni politiche, economiche e sociali che l’avrebbero avvicinata all’Ovest in termini di qualità concorrenziali. I governi occidentali hanno sostenuto programmi orientati al mercato in Russia, sperando che presto sarebbe diventata parte di una società soggiogata alla globalizzazione eterodiretta. Prima della crisi finanziaria russa del 1998, il Paese è stato sostenuto per sei anni dalle “apparecchiature di supporto vitale” del Fondo Monetario Internazionale. A molti livelli dell’apparato statale russo, specialmente nel suo blocco economico, vi erano consiglieri occidentali. Gli Stati occidentali hanno sostenuto El’cin in momenti critici come il conflitto armato con il parlamento russo nel 1993 e la campagna elettorale del 1996.
Tuttavia, nonostante El’cin si fosse dimostrato un burattino dell’Occidente, la Russia ha comunque deluso la controparte. La sua economia, dopo essersi appena ripresa dal predetto default sull’onda dei prezzi elevati del petrolio, è diventata dipendente dalle esportazioni di energia. Il sistema politico è passato dal caos iniziale al dominio degli oligarchi, e poi all’autoritarismo. La società russa ha sopportato lo shock di un cambiamento radicale, ha vissuto la disoccupazione e la povertà – impensabili al tempo del socialismo i morti per il freddo in metropolitana, in quanto non avevano nemmeno la casa assicurata dal PCUS – e ha persino, di contro, acquisito il gusto della prosperità per relativamente pochi, ma non ha mai sviluppato l’esigenza di ascoltare pedissequamente le morali occidentali e copiare e subordinarsi ai loro sistemi politici. Invece, la gente ha iniziato ad apprezzare la stabilità – ossia il ritorno alla sicurezza che offriva la defunta URSS – e, avendone avuto abbastanza di Gorbačëv e El’cin, ha sostenuto Putin. I liberali, l’unica categoria dell’opposizione russa che interessava l’Occidente, sono rimasti una piccola, seppur esplicita, minoranza che ogni volta che tossisce, l’eco è amplificato in Occidente in casse da milioni di watt. Infine, Mosca ha insistito per mantenere il suo status di grande potenza, che a molti in Occidente sembrava un ricordo del passato: e la questione ha infastidito molti.
Va comunque detto che non c’è stato tentativo alcun di isolare la Russia:
1) le è stato offerto di diventare un partner minore e minorato di Stati Uniti d’America, UE e NATO;
2) nel 1991, la Russia è stata autorizzata a mantenere per devoluzione il seggio dell’URSS nel Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite;
3) nel 1996 è stata ammessa al Consiglio d’Europa;
4) nel 1998 al G8;
5) nel 2002 è stato istituito il Consiglio Russia-NATO per la cooperazione militare;
6) Mosca ha stabilito uno stretto partenariato con l’UE, rafforzato nel 2003 dal concetto di quattro spazi comuni (a. lo spazio economico; b. lo spazio per la libertà, la sicurezza e la giustizia; c. lo spazio per la sicurezza esterna; d. lo spazio per la ricerca, l’istruzione e la cultura);
7) nel 2012 la Russia è diventata membro dell’Organizzazione mondiale del commercio ed è iniziato il processo di adesione all’OCSE;
8) tutti i leader russi hanno tenuto riunioni private e informali con le loro controparti statunitensi e a ruota le altre occidentali.
Però, allo stesso tempo, è stato escluso il riconoscimento della Russia come partner alla pari degli Stati Uniti d’America e del suo carrozzone UE. In Occidente, la Federazione Russa è – anzi! – era vista come un attore internazionale più piccolo, la cui influenza e importanza stavano diminuendo. Non si trattava di concedere alla Russia privilegi speciali sotto forma di sfera di influenza, soprattutto sui quattordici Stati che costituivano (assieme alla ex Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, oggi Federazione Russa) le Repubbliche dell’ex Unione Sovietica. La politica di Mosca nei confronti dei Paesi vicini – i predetti Stati baltici, Ucraina, Bielorussia, Moldavia e le repubbliche del Caucaso – è stata attentamente analizzata alla ricerca di elementi “neo-imperiali”. Dalla prima metà degli anni Novanta del sec. XX, l’Occidente ha osservato le azioni della Russia contro i separatisti-terroristi in Cecenia e in tutto il Caucaso settentrionale, considerandole un indicatore di violazioni dei diritti umani, un potenziale scivolamento nei metodi dell’era sovietica e l’eccessiva influenza del servizi militari e speciali nel Paese.
Secondo Stati Uniti d’America e UE, la Russia avrebbe dovuto accettare la decisione dei suoi ex alleati del Patto di Varsavia di aderire alla NATO. Per Mosca, questo è stato particolarmente difficile per due ragioni. In primo luogo, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca (membri della NATO dal 1999), così come Slovacchia, Stati baltici, Romania e Bulgaria (membri dal 2004) hanno avuto ciò che alla stessa Russia non era consentito; in secondo luogo, l’espansione della NATO andava contro le promesse che molti russi credevano fatte dalle volpi occidentali all’ingenuo e sprovveduto Gorbačëv nel 1990: non sarebbe accaduto che a una Germania riunificata fosse stato permesso di rimanere nella NATO (la Repubblica Democratica Tedesca fu integrata nell’Alleanza Atlantica nel processo di unificazione con la Repubblica Federale di Germania). I governi occidentali considerarono le proteste della Russia – sulla “doppia Germania” nella NATO, quale sua espansione aggressiva – come una prova delle ambizioni imperiali di Mosca e persino delle sue rivendicazioni sull’Europa centrale e orientale. La Russia, d’altra parte, ha visto l’espansione della NATO come una violazione degli obblighi da parte dell’Occidente.
Se siamo arrivati a questo punto, ci sono ragioni che non risiedono nello stato emotivo della conduttrice dell’ultimo TG, ma si perdono nella storia recente che spesso si dimentica per convenienza di una sola parte.

Giancarlo Elia Valori